In Italia il tumore della prostata è molto diffuso tra gli individui di sesso maschile. Negli anni 90 fu introdotto come test predittivo il PSA o antigene prostatico specifico, un enzima della famiglia delle callicreine secreto dalla prostata, che serve a fluidificare il liquido seminale. Questo test si dimostrò come un grande avanzamento diagnostico, con la capacità di individuare un numero di tumori molto maggiore che in precedenza, e soprattutto di individuarli fin dai primi stadi di sviluppo. Il problema è che si tratta di un test non infallibile, poiché spesso dà dei falsi positivi, così come al contrario un tumore maligno aggressivo alla prostata può, anche se raramente, insorgere con il PSA basso (test falso negativo).  Ma la ricerca biomedica negli ultimi anni ha messo in evidenza altri biomarcatori. In  particolare elevati livelli urinari di due biomarcatori avrebbero una maggiore specificità rispetto al PSA. Si tratta di una molecola di RNA prodotta dal gene PCA3 e di un altra RNA, denominato TMPRSS2-ERG. La concentrazione nelle urine di questi due marcatori risulta incrementata quasi esclusivamente a seguito della trasformazione tumorale del tessuto prostatico. Già un paio di anni fa, Virginie Vlaeminck-Guillem e i suoi collaboratori all’Università di Lione avevano mostrato, valutando 154 pazienti con tumore alla prostata accertato tramite biopsia, come questi due biomarcatori possano essere considerati predittori complementari dell’aggressività di un tumore dopo prostatectomia. Questi risultati sono stati confermati in test clinici estesi a più di mille pazienti effettuati da un team di ricercatori clinici coordinati da Scott A. Tomlins, della Scuola di Medicina dell’Università del Michigan.